IL TRIBUNALE 
 
    Nel procedimento n. 953/2013 R.G. promosso da C. P. e R. G.,  con
gli avvocati Maria  Paola  Costantini,  Sebastiano  Papandrea,  prof.
Marilisa D'Amico, Ileana Alesso e Massimo Clara, Reclamanti; 
    Contro  Societa'  Cooperativa  UMR  -   Unita'   Medicina   della
Riproduzione in persona del legale rappresentante G.  A.  con  l'avv.
Francesco Luciano Arona resistente 
    Letti  gli  atti,  a   scioglimento   della   riserva   formulata
all'udienza del 28 febbraio 2013, ha emesso la seguente Ordinanza. 
    I ricorrenti C. P. - (nata il: ...) e R. G.  i  (nato  il:  ...),
coniugati dal 2005, con ricorso ex art. 700  C.P.C.,  deducevano:  di
essere coppia infertile ai sensi  della  legge  n.  40/04,  essendosi
accertata per il partner femminile una sterilita' assoluta causata da
menopausa precoce; che  dopo  essersi  rivolti  a  vari  specialisti,
contattavano  il  Centro  UMR,  specializzato   in   medicina   della
riproduzione di cui e' direttore responsabile il dott. A. G. che, nel
confermare la diagnosi di infertilita' dovuta  a  menopausa  precoce,
riteneva inutile e potenzialmente dannoso per la salute della signora
C. procedere con ulteriori terapie ormonali,  indicando  quale  unica
via percorribile il ricorso alla c.d. ovodonazione; che, quindi, essi
coniugi R. C. si rivolgevano al predetto centro chiedendo che venisse
eseguita tale tecnica;  che  il  dott.  A.  G.,  odierno  resistente,
opponeva un rifiuto essendo  nel  nostro  Paese  vietata,  giusta  il
disposto dell'art. 4 comma 3 della legge n. 40/04, la fecondazione di
tipo eterologo. 
    Pertanto, i  coniugi  R.  C.  sostenevano,  in  primo  luogo,  la
necessita' di una lettura costituzionalmente  orientata  dell'art.  4
comma 3 della legge n. 40/04,  incentrata  sulla  valorizzazione  del
combinato disposto degli artt. 4 e 5 della legge  medesima.  Cio'  in
quanto l'art. 4, comma 1, che definisce le cause  di  infertilita'  e
sterilita'  che  possono  essere  risolte  grazie  all'accesso   alle
tecniche di fecondazione assistita, e' richiamato dall'art. 5, mentre
l'art. 4, comma 3, che pone il divieto di fecondazione eterologa, non
e' oggetto di alcun richiamo esplicito da parte dell'art. 5. Per tale
ragione doveva ammettersi, secondo l'interpretazione prospettata  dai
ricorrenti, l'esistenza di uno spazio per una deroga  al  divieto  di
fecondazione eterologa, che si apre nel caso di coppie  in  grado  di
soddisfare  i  requisiti  dell'art.  5  (dunque,  coppie  di  persone
maggiorenni  di  sesso  diverso,  coniugate  o  conviventi,  in  eta'
potenzialmente fertile, entrambi viventi),  non  esistendo  per  tali
coppie un divieto espresso di fecondazione  eterologa.  Secondo  tale
interpretazione, puo' dunque accedere alla fecondazione assistita chi
soddisfi   i   requisiti   soggettivi    richiesti    dall'art.    5,
indipendentemente dal tipo di tecnica (omologa o  eterologa)  cui  si
chiede di accedere. 
    I ricorrenti, ritenevano che,  non  ammettendo  l'interpretazione
delle norme teste' suggerita,  l'ipotesi  di  interpretazione  rigida
delle  citate  norme  si  poneva  in   contrasto   con   i   principi
costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 31, 32  e  117  comma  1 Cost.
Invero, se l'art. 4, comma 3 della legge n. 40/04 vietasse davvero in
modo generalizzato la fecondazione eterologa, esso darebbe  luogo  ad
una discriminazione ingiustificata tra coppie infertili a seconda del
grado di infertilita', poiche' le coppie in cui uno  dei  partner  e'
incapace di produrre  gameti  fecondabili  artificialmente  sarebbero
escluse dalle tecniche di fecondazione assistita,  mentre  le  coppie
affette da forme meno gravi  di  infertilita'  (che  non  necessitano
della donazione di gameti) potrebbero  usufruire  delle  tecniche  di
fecondazione assistita previste dalla normativa  in  questione.  Cio'
comporterebbe, secondo i ricorrenti, la violazione dell'art. 2  Cost.
che  sancisce  il  diritto  di  identita'  e  di  autodeterminazione,
dell'art. 3 Cost. che sancisce il principio di  uguaglianza,  nonche'
degli ulteriori parametri costituzionali evocati  (quali  il  diritto
alla maternita' tutelato dall'art. 31 Cost., il diritto  alla  salute
dei componenti della coppia di cui  all'art.  32  Cost.,  l'art.  117
comma primo  Cost.  per  violazione  della  Convenzione  Europea  dei
diritti dell'uomo). 
    I ricorrenti, pertanto, concludevano chiedendo che,  ritenuta  la
sussistenza del fumus boni  iuris,  sulla  base  dell'interpretazione
costituzionalmente orientata della  normativa,  e  del  periculum  in
mora, venisse ordinato in via d'urgenza ex art. 700 C.P.C. al  centro
UMR di «eseguire a  favore  dei  ricorrenti,  secondo  l'applicazione
delle metodiche della procreazione assistita,  la  c.d.  fecondazione
eterologa e, nel caso di specie, la  donazione  di  gamete  femminile
secondo le migliori e accertate pratiche mediche». 
    Nel  caso,  poi,  di  interpretazione   rigida   della   suddetta
normativa, domandavano che, stante la  sostenuta  incostituzionalita'
della normativa medesima, fosse ritenuta non manifestamente infondata
la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4,  comma  3
della legge n. 40/04 per violazione degli artt. 2, 3, 31,  32  e  117
comma 1 Cost. 
    Costituitasi in giudizio la societa' cooperativa UMR, in  persona
del legale rappresentante G. A., dichiarava la propria disponibilita'
ad applicare la tecnica di PMA (procreazione medicalmente  assistita)
indicata per il caso specifico,  che  prevede  l'impiego  di  ovociti
provenienti da  una  donatrice,  a  condizione  che  venisse  rimosso
l'ostacolo legislativo costituito dall'art. 4 comma 3 della legge  n.
40/04. 
    Intervenivano nel giudizio, per sostenere  le  domande  di  parte
ricorrente,  l'associazione   «HERA   ONLUS»,   l'associazione   «SOS
infertilita' ONLUS» e l'associazione «Menopausa precoce». 
    All'udienza di comparizione  del  21  settembre  2010,  le  parti
insistevano nelle domande formulate, il giudice riservava ordinanza. 
    A scioglimento della riserva assunta in tale udienza, in data  21
ottobre 2010, il  Giudice  depositava  ordinanza  con  cui,  premessa
l'impossibilita' di superare il  divieto  di  fecondazione  eterologa
attraverso la  lettura  costituzionalmente  orientata  suggerita  dai
ricorrenti, ritenuta la rilevanza e la  non  manifesta  infondatezza,
rimetteva alla Corte  Costituzionale  la  questione  di  legittimita'
costituzionale degli artt. 4, comma 3, 9, commi 1 e 3,  limitatamente
alle parole «in violazione del divieto dell'art. 4 comma 3», 12 comma
1 della legge n. 40/04 per contrasto con gli artt. 117 comma 1 Cost.,
2, 3, 31 e 32, commi 1 e 2, Cost., nella parte in  cui  impongono  il
divieto di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita di tipo
eterologo e prevedono sanzioni  nei  confronti  delle  strutture  che
dovessero praticarla. 
    Con ordinanza n. 150 del 22 maggio 2012, la Corte Costituzionale,
disposta la riunione dei giudizi promossi dal Tribunale ordinario  di
Firenze con ordinanza del 6 settembre 2010, dal  Tribunale  ordinario
di Catania con la  citata  ordinanza  del  21  ottobre  2010,  e  dal
Tribunale ordinario di Milano con  ordinanza  del  2  febbraio  2011,
siccome aventi ad oggetto, in parte, le stesse  norme,  censurate  in
relazione   a   parametri   costituzionali,   per   profili   e   con
argomentazioni   in   larga   misura    coincidenti,    e    ritenuta
l'ammissibilita' delle questioni proposte, potendo  la  questione  di
legittimita' costituzionale essere sollevata, secondo il  consolidato
orientamento della Corte Costituzionale, in  sede  cautelare  quando,
come accaduto nella specie, il giudice  non  abbia  provveduto  sulla
domanda o non  abbia  comunque  ancora  esaurito  il  proprio  potere
cautelare, ha osservato che tutti i  rimettenti  sollevano  anzitutto
questione di  legittimita'  costituzionale  delle  norme  oggetto  di
censura in riferimento all'art. 117 comma 1 Cost., in relazione  agli
artt. 8 e 14  della  Convenzione  Europea  dei  diritti  dell'uomo  e
premettono di dover  applicare  queste  ultime  «nell'interpretazione
offertane dalla Corte di Strasburgo»  con  la  sentenza  della  prima
sezione del 1.0.4.2010, S.H. ed altri contro Austria. 
    Aggiunge, pero', la Corte  delle  leggi  che,  successivamente  a
tutte le ordinanze di rimessione, la Grande  Camera  della  Corte  di
Strasburgo, alla quale,  ai  sensi  dell'art.  43  della  Convenzione
Europea dei diritti dell'uomo, e' stato deferito il caso deciso dalla
prima sezione, con la sentenza del 3 novembre  2011,  S.H.  ed  altri
contro Austria, si e' pronunciata  in  senso  diverso  sul  principio
enunciato dalla prima sezione con la  sentenza  del  1°  aprile  2010
richiamata dai rimettenti per identificare il contenuto  delle  norme
della CEDU ritenute violate dalle disposizioni interne censurate. 
    Pertanto - premesso che, secondo il costante  orientamento  della
Corte Costituzionale (tra le molte, sent. n. 348 e n. 349  del  2007,
sent. n. 236/2011), la questione dell'eventuale contrasto della norma
interna con le norme della CEDU va risolta alla  luce  del  principio
secondo  cui  il  giudice  nazionale,  al  fine  di   verificare   la
sussistenza del contrasto, deve avere riguardo alle «norme della CEDU
come  interpretate  dalla  Corte   di   Strasburgo»   «specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione ed  applicazione»  (cosi',
da ultimo, sent. n. 78/12) e considerato che, secondo  l'orientamento
altrettanto  consolidato  della  Corte   Costituzionale,   dev'essere
ordinata la restituzione degli atti al giudice a quo affinche' questi
proceda ad un rinnovato esame dei  termini  della  questione  qualora
all'ordinanza di rimessione sopravvenga una modificazione della norma
costituzionale invocata  come  parametro  di  giudizio  ovvero  della
disposizione che integra il parametro costituzionale  oppure  qualora
il quadro normativo  subisca  considerevoli  modifiche  pur  restando
immutata la disposizione  censurata  -  la  Corte  Costituzionale  ha
ritenuto che  la  pronuncia  della  Grande  Camera,   incidendo   sul
significato delle  norme  convenzionali  considerate  dai  giudici  a
quibus,  costituisca  un  novum  che  influisce  direttamente   sulla
questione di legittimita' costituzionale cosi' come proposta,  avendo
i giudici a quibus non solo proposto  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  riferita  all'art.  117  comma  1  Cost.   in   linea
preliminare rispetto alle altre pure sollevate,  ma  avendo  altresi'
ripetutamente richiamato la suindicata sentenza della  prima  sezione
della Corte di Strasburgo allo scopo di trarne argomenti  a  conforto
delle censure proposte in relazione anche  agli  ulteriori  parametri
costituzionali evocati, ed ha,  pertanto,  disposto  la  restituzione
degli atti ai giudici a quibus «affinche' i rimettenti  procedano  ad
un rinnovato esame dei termini delle questioni». 
    Con istanza depositata  in  data  28  luglio  2012,  gli  odierni
ricorrenti chiedevano la riassunzione del  giudizio  cautelare  e  la
fissazione dell'udienza di comparizione delle parti, con termine  per
il deposito di memorie. 
    All'udienza dell'8  novembre  2012  all'uopo  fissata,  le  parti
insistevano in tutte le domande gia' formulate e  chiedevano  termine
per note. Il giudice riservava ordinanza assegnando termine di giorni
venti. Con ordinanza del 28 gennaio 2013 il  Giudice  di  prime  cure
sosteneva l'insussistenza, nel caso de quo, del requisito  della  non
manifesta infondatezza  della  questione  proposta  con  riguardo  ai
parametri evocati. Nell'ordinanza citata, infatti, il giudicante,  ha
affermato che: «quanto al denunciato contrasto dell'art.  4  comma  3
della legge n. 40/04 con l'art. 117  comma  1  Cost.  per  violazione
degli art. 8 e 14 della Convenzione  Europea  dei  diritti  dell'uomo
(nel prosieguo indicata come CEDU), va  anzitutto  ricordato  che,  a
partire dalle sentenze n. 348  e  n.  349  del  2007  e  poi  con  le
successive n. 311 del 2009 e n. 93 del 2010, la giurisprudenza  della
Corte Costituzionale e' rimasta ferma nel ritenere che le norme della
CEDU integrano, quali "norme interposte", il parametro costituzionale
espresso dall'art. 117 comma 1 Cost. nella parte in cui  esso  impone
la conformazione della  legislazione  interna  ai  vincoli  derivanti
dagli "obblighi internazionali", sicche' "il giudice nazionale comune
deve   preventivamente   verificare   la   praticabilita'   di    una
interpretazione della norma interna conforme alla norma convenzionale
ricorrendo a tutti i normali strumenti di  ermeneutica  giuridica  e,
ove  tale  soluzione  risulti  impercorribile,   non   potendo   egli
disapplicare  la  norma  interna  contrastante,  deve  denunciare  la
rilevata  incompatibilita'  proponendo  questione   di   legittimita'
costituzionale in riferimento al  parametro  dell'art.  117  comma  1
Cost." (C. Cost. n. 93 del  2010);  che  inoltre  (come  sottolineato
dalla Corte Costituzionale nell'ordinanza di restituzione degli  atti
ai giudici a quibus del 22 maggio 2012) la  questione  dell'eventuale
contrasto della disposizione interna  con  le  norme  della  CEDU  va
risolta nel senso che il giudice comune deve,  laddove  un  contrasto
siffatto si profili, avere  riguardo  alle  norme  convenzionali  nel
significato  loro  attribuito  dalla  Corte  di  Strasburgo  cui   e'
demandata (dall'art. 32 par. 1 della CEDU) la specifica  funzione  di
dare  alle  relative  norme  interpretazione  ed  applicazione   ("Il
contenuto della Convenzione e degli obblighi che da essa derivano  e'
essenzialmente quello che si trae dalla giurisprudenza che nel  corso
degli anni la Corte di Strasburgo ha elaborato", vedi  sent.  n.  311
del 2009 e n. 236 del 2011). 
    Ne consegue  che,  al  fine  di  verificare  la  sussistenza  del
denunciato contrasto dell'art. 4 comma 3 della legge n. 40/04 con  le
norme di cui agli artt. 8 e 14 della CEDU, non puo' non tenersi conto
del modo in cui queste ultime sono state interpretate dalla Corte  di
Strasburgo. 
    L'art. 8 della CEDU tutela il  diritto  al  rispetto  della  vita
privata e familiare vietando (art.  8  par.  2)  le  ingerenze  della
pubblica autorita' nell'esercizio di tale diritto, se non nei casi in
cui vengano in rilievo altri diritti o interessi di  rango  uguale  o
superiore; l'art. 14 sancisce il divieto di discriminazione quanto al
godimento dei diritti e delle liberta'  riconosciuti  nella  presente
Convenzione. 
    La Corte CEDU ha ritenuto (secondo l'esegesi accolta dalla  prima
sezione nella sentenza del 10  aprile  2010,  S.H.  ed  altri  contro
Austria, per quest'aspetto fatta propria dalla  Grande  Camera  nella
sentenza del 3 novembre 2011, vertente  sul  medesimo  caso)  che  il
diritto di una coppia di concepire un figlio e di fare uso a tal fine
delle tecniche della PMA rientri nell'ambito del diritto al  rispetto
della vita privata e familiare, tutelato dall'art. 8  della  CEDU,  e
che l'esercizio di tale diritto (come di  tutti  i  diritti  tutelati
dalla Convenzione) debba essere consentito dagli Stati aderenti  alla
CEDU senza alcuna discriminazione e disparita' di  trattamento,  come
previsto dall'art. 14 della Convenzione stessa. 
    All'interno di tale impostazione, non e' ravvisabile  -ad  avviso
di quel decidente- alcuna incompatibilita' tra l'art. 4 comma 3 della
legge n. 40/04 e le richiamate disposizioni convenzionali, atteso che
il divieto assoluto di fecondazione eterologa posto dal citato art. 4
comma 3 di certo si configura - nella logica dell'art. 8 della CEDU -
come "ingerenza della pubblica autorita'" nella scelta  della  coppia
(costituente espressione del diritto al rispetto della vita privata e
familiare) di concepire un figlio  facendo  ricorso  a  tale  tecnica
procreativa, ma la  suddetta  ingerenza  risulta  giustificata  dalla
necessita' di assicurare protezione a diritti  altrui  di  rango  non
inferiore (vedi art. 8 par.  2  della  CEDU  secondo  cui  "Non  puo'
esservi ingerenza della pubblica  autorita'  nell'esercizio  di  tale
diritto, se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge  ed
in quanto costituisca una misura che, in una societa' democratica, e'
necessaria  per  la  sicurezza  nazionale,  l'ordine   pubblico,   il
benessere  economico  del  Paese,  la  prevenzione  dei   reati,   la
protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e
delle liberta'  altrui)"  e  che  "Le  condizioni  e  le  limitazioni
previste dalla citata legge alla possibilita' di ricorrere  alla  PMA
sono, dunque, imposte dalla superiore esigenza di tutela della salute
e dignita' dei soggetti coinvolti, tra cui il concepito che - in caso
di  fecondazione  di  tipo  eterologo  ed,  in  specie,  in  caso  di
fecondazione assistita da attuarsi (come  nel  caso  che  ci  occupa)
tramite donazione di ovociti - verrebbe a trovarsi in una  situazione
di  "maternita'  frammentata"  (vi  sarebbero,  infatti,  una   madre
"genetica" che si identifica nella donatrice ed una madre "biologica"
che si identifica in colei che da' alla  luce  il  bambino).  E  tale
situazione - come va sottolineato - non e' in alcun modo assimilabile
ad altri istituti giuridici  ammessi  dal  nostro  ordinamento  quali
l'adozione poiche',  in  caso  di  adozione,  vi  sono  due  genitori
legittimi (gli adottanti) che non corrispondono ai genitori biologici
(la cui identita' e' destinata a rimanere coperta da anonimato) senza
che tra i primi e i secondi  si  instauri  alcuna  sovrapposizione  o
concorso nella procreazione tale da rendere incerta  l'identita'  del
figlio. 
    Queste  essendo  le  ragioni  poste  a  base   del   divieto   di
fecondazione eterologa previsto dalla legge italiana, ne consegue che
la disparita' di trattamento che, in conseguenza di tale divieto,  si
determina tra una coppia (come quella odierna ricorrente)  ostacolata
nel proprio desiderio di avere un  figlio  dal  divieto  suddetto  e,
dall'altra parte, una coppia che avendo un problema riproduttivo  che
non richiede la donazione di gameti puo' accedere alla  PMA  (facendo
ricorso alla fecondazione omologa), lungi dal costituire  un  profilo
di incoerenza nel quadro normativo disciplinante l'accesso alla  PMA,
trova   invece   una   ragionevole   giustificazione   nell'obiettiva
diversita' che  caratterizza  la  situazione  dell'una  e  dell'altra
categoria di coppie, avuto riguardo alla posizione e  agli  interessi
del nascituro». Quanto alla lamentata violazione dei  c.d.  parametri
interni, il Giudice di  prime  cure  ha  concluso  per  la  manifesta
infondatezza  della  questione  di   legittimita'   costituzionalita'
sollevata dalle parti ritenendo che in tutti i casi  in  cui  si  era
prospettata la violazione degli  artt.  2,  3,  31,  32  della  Cost.
occorreva fare una valutazione di  bilanciamento  tra  gli  interessi
della  coppia  che  necessita  di  donazione  di  gameti,  la  libera
espressione della personalita' di detta coppia, il diritto di  creare
una famiglia e di curare la salute, con il diritto di  un  terzo,  il
nascituro, ad avere la certezza della propria  provenienza  genetica.
Tale bilanciamento, nell'ordinanza reclamata, veniva risolto a favore
del  nascituro  con  conseguente  accantonamento  dei  diritti  della
coppia, declaratoria di  manifesta  infondatezza  della  questione  e
rigetto del ricorso ex art. 700 C.P.C. 
    Con ricorso depositato il 28 gennaio  2013  i  coniugi  C.  -  R.
proponevano reclamo avverso tale provvedimento di rigetto  insistendo
nel sostenere l'irragionevolezza della normativa di riferimento sotto
il profilo della violazione dei piu' volte indicati parametri interni
e chiedendo l'accoglimento del ricorso. 
    All'udienza del 28 febbraio 2013 il  Tribunale  si  riservava  di
provvedere. 
 
                             Motivazione 
 
    Occorre verificare la sussistenza del  fumus  boni  iuris  e  del
periculum in mora. 
    Sotto il primo profilo vi e' da dire che i ricorrenti  soddisfano
i requisiti di cui all'art. 5 della legge n. 40/2004, in quanto  essi
sono maggiorenni, di sesso diverso, coniugati, in eta' fertile. 
    Inoltre,  la  ricorrente  e'  affetta  da  accertata   sterilita'
secondaria da menopausa precoce. 
    La soluzione della problematica riproduttiva del caso si scontra,
tuttavia, con il divieto posto dall'art. 4 comma 3 legge n. 40/2004. 
    Occorre, ribadire  quanto  affermato  dalla  prima  ordinanza  di
rimessione di questo Tribunale del  21  gennaio  2010  per  cui  deve
escludersi che il divieto de quo  possa  essere  superato  attraverso
l'interpretazione   costituzionalmente   orientata    proposta    dai
ricorrenti, in quanto l'assenza  di  un  rinvio  esplicito  da  parte
dell'art. 5 al divieto di fecondazione eterologa non rileva in  alcun
modo rispetto all'efficacia di tale divieto nei confronti di chi tali
requisiti soddisfi. 
    Infatti, l'art. 4, comma 1, e l'art. 5 legge n. 40/2004 non  sono
norme sovrapponibili poiche' hanno oggetti diversi e,  pertanto,  non
possono essere legate da un rapporto di principio - deroga. 
    Inoltre, il rinvio esplicito dell'art. 5 al solo art. 4  comma  1
e' giustificato dal fatto che quest'ultima norma da' una  definizione
di infertilita', al contrario del comma 3 dell'art. 4 che si limita a
sancire il divieto di fecondazione eterologa. 
    Infine, a rendere chiaro il divieto di tale  tecnica  procreativa
si pone il richiamo incidentale di tale divieto in altre norme  (vedi
art. 9, comma 1 e 3,), nonche' la sanzione che, secondo la previsione
dell'art. 12, si applica  a  chiunque  utilizza  a  fini  procreativi
gameti esterni alla coppia (eccetto che ai componenti della coppia). 
    Occorre, allora, verificare se ricorrono tuttavia  i  presupposti
per la  rimettere  nuovamente  gli  atti  alla  Corte  Costituzionale
affinche' essa si pronunci sulla  costituzionalita'  del  divieto  di
fecondazione eterologa sancito dalla legge  n.  40/2004,  posto  che,
nella specie, sussiste anche  il  requisito  del  periculum  in  mora
attesa  l'eta'  avanzata  della  ricorrente,  l'accertata   incidenza
dell'eta' sul successo della PMA ed i tempi  nomali  di  un  processo
ordinario. 
    La questione e' rilevante  proprio  perche'  non  vi  sono  altre
interpretazioni adottabili dell'art. 5 legge  n.  40/2004  e  perche'
solo superando il divieto in questione i  coniugi  potranno  accedere
alle tecniche di PMA. 
    Sotto il profilo della non manifesta infondatezza della questione
vale evidenziare quanto segue. 
    Si conviene con il Giudice dell'ordinanza reclamata  nella  parte
in cui afferma non possa piu' parlarsi di contrasto tra la  legge  n.
40/2004 e l'art. 117 della Cost essendo ormai intervenuta la sentenza
della Grande Camera che ha escluso sussistere alcun contrasto tra  la
legislazione austriaca sulla fecondazione eterologa in  vitro  e  gli
artt. 8 e 14 della Cedu, rinvenendo in  essa  un'ipotesi  in  cui  il
legislatore di quella nazione ha legittimamente ritenuto, nell'ambito
della sua discrezionalita', di limitare il diritto della persona  (la
coppia sterile) imposto dalla necessita' di  tutelare  i  diritti  di
terzi (il nascituro). 
    Quanto alla posizione in cui si trova il Giudice italiano  quando
sopravviene un'interpretazione delle  norme  convenzionali  da  parte
della Corte di  Strasburgo  (si  veda,  tra  le  tante,  Corte  Cost.
sentenza n. 236/2011) «non e' in potere  della  Corte  costituzionale
sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte  di
Strasburgo  e  sostituire   la   propria   interpretazione   di   una
disposizione della CEDU a quella della Corte di  Strasburgo,  con  la
conseguenza che le norme della CEDU devono  quindi  essere  applicate
nel significato loro  attribuito  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo: e tuttavia, la Corte costituzionale puo' valutare come  ed
in qual misura il prodotto dell'interpretazione della  Corte  europea
si inserisca nell'ordinamento  costituzionale  italiano.  Invero,  la
norma CEDU, nel momento  in  cui  va  ad  integrare  il  primo  comma
dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema  delle
fonti, con tutto cio' che segue,  in  termini  di  interpretazione  e
bilanciamento,  che  sono  le  ordinarie  operazioni  cui  la   Corte
costituzionale e' chiamata in tutti i giudizi di sua competenza». 
    Ne consegue che il Giudice italiano rimane libero nel valutare la
non manifesta infondatezza della questione del contrasto tra norma di
riferimento e parametri "interni". 
    Al  riguardo,  questo   Collegio   ritiene   doversi   discostare
dall'interpretazione adottata dal Giudice dell'ordinanza reclamata. 
    I parametri interni ivi richiamabili e richiamati sono gli  artt.
3, 31, 2, e 32 Cost. 
    Innanzitutto, ritiene questo collegio che la norma in esame violi
gli artt. 3 e 31 Cost. 
    Come osservato da questo Tribunale  in  composizione  monocratica
con l'ordinanza di remissione  del  21  gennaio  2010:  «dall'art.  3
discendono tanto il principio di non discriminazione  che  quello  di
ragionevolezza. Tali limiti imposti al legislatore comportano che  lo
stesso, pur essendo nella condizione di disciplinare le  materie  che
sono attribuite alla sua competenza in  modo  libero,  tuttavia,  non
puo' escludere  determinati  soggetti  dal  godimento  di  specifiche
situazioni, o imporre agli stessi divieti, in modo discriminatorio, a
maggior  ragione  quando  tali  situazioni  sono   costituzionalmente
rilevanti. 
    Attraverso il principio d'eguaglianza e di verifica che la  legge
disponga un trattamento pari, per posizioni eguali,  e  differenziato
per situazioni diverse,  si  e'  estrapolato  dalla  Costituzione  un
"canone di coerenza  dell'ordinamento  giuridico",  incentrato  sulla
clausola  generale  della  ragionevolezza,  grazie  al  quale  si  e'
progressivamente esteso il giudizio  di  legittimita'  costituzionale
sull'azione del legislatore, in termini di  logicita'  interna  della
normativa,  razionalita'  delle  deroghe  apportate,  giustificazione
delle differenze di trattamento. 
    Il legislatore puo', cosi', imporre  limiti  ai  diritti  e  agli
interessi dei soggetti  in  base  alle  finalita'  che  si  intendono
perseguire  con  l'esercizio  del  potere  legislativo  ma  non  puo'
trattare diversamente determinati soggetti rispetto ad altri  che  si
trovino nella medesima o analoga situazione, a meno che la disparita'
di  trattamento  non  sia  giustificata  in  modo  ragionevole:   "il
principio di eguaglianza e' violato anche quando la legge,  senza  un
ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che  si
trovino in situazione eguale" (C. Cost n. 15 del  1960);  e,  ancora,
per citare un altro esempio  in  tal  senso:  "il  principio  di  cui
all'art. 3 Cost. e' violato non solo quando  i  trattamenti  messi  a
confronto sono formalmente contraddittori in  ragione  dell'identita'
delle fattispecie, ma anche quando la differenza  di  trattamento  e'
irrazionale secondo le regole del  discorso  pratico,  in  quanto  le
rispettive fattispecie, pur diverse, sono  ragionevolmente  analoghe"
(C. Cost. n. 1009 del 1988). 
    Ora, quello alla creazione di una famiglia costituisce un diritto
fondamentale oltre che interesse pubblico riconosciuto e tutelato  ex
artt. 2 e 31 Cost., come affermato dalla stessa Corte  Costituzionale
(C. Cost.  n.  46  del  1993),  dunque,  la  soluzione  dei  problemi
riproduttivi mediante la procreazione medicalmente assistita  e'  una
situazione immediatamente riconducibile nell'alveo  di  tale  diritto
fondamentale e del diritto alla maternita'/paternita'». 
    Nel caso in esame, nella persistenza del divieto de quo sarebbero
trattate  in  modo  opposto  coppie  con  problemi  di  procreazione,
risultando differenziate solo dal tipo di patologia  che  affligge  i
componenti della coppia. 
    Inoltre, viene in rilievo l'art. 3 Cost. anche sotto  il  profilo
del divieto di irragionevolezza dal momento che  le  coppie  soggette
alla  patologia  piu'  grave  sarebbero  escluse  dall'accesso   alla
fecondazione assistita. 
    Infine, come osservato dal Tribunale di Milano, nell'ordinanza di
rimessione alla Corte Costituzionale del 9 aprile 2013, i concetti di
famiglia e genitorialita', richiamati dall'art. 31 Cost.,  in  quanto
afferenti  a  principi  costituzionali,  sono  dotati   di   naturale
duttilita' e, quindi,  devono  forgiarsi  alla  luce  dell'evoluzione
socio-culturale del momento storico. 
    Non puo' non sottacersi che il concetto  di  famiglia  e'  andato
cambiando, estendendosi notevolmente, dal di'  dell'emanazione  della
Carta Costituzionale. 
    Sussiste la violazione dell'art. 2 della Cost. 
    Il divieto oggetto  di  censura,  infatti,  non  garantisce  alle
coppie, cui viene diagnosticato un quadro  clinico  di  sterilita'  o
infertilita' irreversibile, il proprio diritto alla  vita  privata  e
familiare, e il proprio diritto di identita' e di autodeterminazione. 
    Come e' stato  osservato  da  questo  Tribunale  in  composizione
monocratica con l'ordinanza di remissione del 21  ottobre  2010:  «la
decisione da parte delle coppie sterili o infertili di far uso  della
procreazione artificiale riguarda,  infatti,  la  sfera  piu'  intima
della  persona,  incidendo  direttamente  sulla  stessa  liberta'  di
autodeterminarsi; ma tale diritto, inevitabilmente,  e'  condizionato
dai limiti determinati  dalla  patologia  di  cui  le  coppie  stesse
soffrono, trovandosi,  in  presenza  del  divieto  di  donazione  dei
gameti, nell'impossibilita' di poter fondare una famiglia e quindi di
poter costruire liberamente la propria vita ed esistenza». 
    Vi e', infine, il contrasto con l'art. 32 Cost. 
    Infatti, non vi e'  dubbio  che  le  tecniche  di  PMA  siano  da
considerarsi come rimedi terapeutici sia in relazione ai beni che  ne
risultano coinvolti (cfr. Corte Cost. n. 559/1987 e n. 185/1998)  sia
perche' implicano un trattamento da eseguirsi sotto diretto controllo
medico, coperto da SNN e diretto a superare una causa patologica  che
impedisce la procreazione. 
    Il divieto posto dalla legge  n.  40/2004,  dunque,  impedirebbe,
irragionevolmente, la cura di  una  patologia  acclarata  di  cui  la
coppia e' affetta. 
    Quanto al profilo del coinvolgimento, in  ogni  vicenda  relativa
alla c.d. fecondazione eterologa, di diritti di terzi, non affrontato
dall'ordinanza del 21 ottobre  2010,  ma  evidenziato  dalla  recente
pronuncia della Grande Camera, il Collegio ritiene di optare per  una
soluzione differente rispetto a  quella  fatta  propria  dal  Giudice
dell'ordinanza reclamata. 
    I terzi i cui diritti vengono in rilievo nel caso di accesso alla
fecondazione eterologa sono la madre genetica, la madre  biologica  e
il nascituro. 
    Al riguardo, questo collegio non ritiene, in primo  luogo,  possa
ravvisarsi un profilo di rischio alla salute (fisica o  mentale)  per
la madre biologica per l'impianto di un gamete da essa  non  prodotto
dal momento che non risulta, allo stato  delle  attuali  e  condivise
conoscenze mediche, non soltanto alcuna certezza di un reale pericolo
in tal senso ma neppure l'esistenza di alcuna casistica negativa  che
abbia una qualche incidenza statisticamente apprezzabile di danni  di
alcun genere in assenza di autorevoli  e  condivisi  rilevamenti  e/o
studi  scientifici  che  possano  in  qualche  modo  confermare  tale
pericolo, potendosi, tutt'al piu', ipotizzare di trovarsi  di  fronte
ad una mera e soggettiva presunzione di  pericolo  suggerita,  forse,
dalla novita' e particolarita' della  situazione  e  dalle  questioni
etiche  poste,  presunzione,  pero',  non  suffragata  da   adeguato,
attendibile e condiviso supporto scientifico. 
    Analoghe considerazioni possono farsi con riferimento alla salute
della donatrice chiamata, secondo alcuni, in ipotesi, a stressare  il
proprio fisico per l'eventuale commercializzazione dei gameti. 
    Questo pericolo e' evitato, invero, dal divieto  della  legge  n.
40/2004 di commercializzazione degli ovuli ed e', comunque, comune ad
altre  e  ben  piu'  rilevanti  ipotesi,  eticamente  e   socialmente
ampiamente approvate, di donazione di tessuti, organi o parti di essi
tra viventi. 
    Questo collegio non ritiene, infine, sussistano i presupposti per
pregiudicare il diritto della coppia a fronte  del  presunto  diritto
del nascituro alla consapevolezza della propria provenienza genetica. 
    Giova, infatti, richiamare al riguardo la  sentenza  della  Corte
Costituzionale n. 27 del 1975 la quale ha dichiarato l'illegittimita'
costituzionale dell'allora vigente art. 546 del  codice  penale  (che
puniva chi cagionava l'aborto di donna consenziente), nella parte  in
cui  non  prevedeva  che  la  gravidanza  potesse  venire  interrotta
allorquando l'ulteriore  gestazione  implicasse  danno,  o  pericolo,
grave, medicalmente accertato e  non  altrimenti  evitabile,  per  la
salute della madre. 
    In essa e' pur vero che il Giudice delle leggi ha  affermato  che
la tutela del concepito - che  gia'  viene  in  rilievo  nel  diritto
civile (artt. 320, 339, 687  c.c.)  -  ha  fondamento  costituzionale
nell'art.  31,  secondo  comma,   della   Costituzione   che   impone
espressamente la «protezione della maternita'» e, piu'  in  generale,
nell'art. 2 Cost. che riconosce e garantisce  i  diritti  inviolabili
dell'uomo, fra i quali non puo'  non  collocarsi,  sia  pure  con  le
particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica  del
concepito, ma e' anche vero che ha, tuttavia,  affermato  che  questa
premessa - che di per se' giustificava l'intervento  del  legislatore
volto   a   prevedere   sanzioni   penali   -   andava   accompagnata
dall'ulteriore  considerazione  che  l'interesse   costituzionalmente
protetto relativo al concepito puo' venire in  collisione  con  altri
beni  che  godono  pur  essi  di  tutela  costituzionale  e  che,  di
conseguenza, la legge non puo' dare al primo una prevalenza totale ed
assoluta, negando ai secondi adeguata protezione. 
    Ed, invero, a tutelare il diritto della  madre  non  venne  dalla
Corte ritenuta sufficiente la scriminante generale di cui all'art. 54
c.p. (stato di necessita') che  esige  non  soltanto  la  gravita'  e
l'assoluta inevitabilita' del danno o del pericolo, ma anche  la  sua
attualita', mentre il danno o pericolo conseguente  al  protrarsi  di
una gravidanza puo' essere previsto, ma non e' sempre immediato. 
    Peraltro, aggiunse la Corte, la scriminante dell'art. 54 c.p.  si
fonda sul presupposto d'una equivalenza del  bene  offeso  dal  fatto
dell'autore rispetto all'altro bene che col  fatto  stesso  si  vuole
salvare. 
    «Ora» concluse la Corte, «non esiste equivalenza fra  il  diritto
non solo alla vita ma anche  alla  salute  proprio  di  chi  e'  gia'
persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione  che  persona
deve ancora diventare». 
    Analogamente, nel caso che ci occupa, ritenuto che  la  soluzione
dei  problemi  riproduttivi  mediante  la  procreazione  medicalmente
assistita (ai quali la stessa legge n.  40  del  2004  intende  porre
rimedio) e' una situazione  immediatamente  riconducibile  nell'alveo
del diritto fondamentale alla maternita'/paternita', non  par  dubbio
che  il  bilanciamento  tra  interessi  (diritti)  costituzionalmente
protetti alla creazione di una famiglia che  costituisce  un  diritto
fondamentale, oltre che interesse pubblico, riconosciuto  e  tutelato
ex artt. 2 e 31 Cost. (come affermato dalla Corte Costituzionale  (C.
Cost. n.46 del 1993) facenti capo alla  coppia  e  cioe'  a  soggetti
esistenti (persone in senso tecnico), e  dall'altro  ad  una  entita'
(embrione, feto) che soggetto (nel senso pieno di persona) ancora non
e',  non  sembra  possa  ragionevolmente  risolversi  in  favore  del
secondo. 
    Invero, anche a volere attribuire al nascituro  una  assai  ampia
tutela (che, come vedremo, la stessa legge n. 40/2004 in effetti  gli
riconosce), allo stato, esso non sembra, comunque, potersi pienamente
equiparare, ne' giuridicamente ne' nella comune  percezione  sociale,
alla persona gia' nata. 
    In proposito, se e' vero che tra le finalita'  che  la  legge  n.
40/2004 si propone vi e' anche quella di tutelare il  concepito,  che
definisce soggetto, non arriva, pero',  a  modificare  l'art.  1  del
codice civile che, com'e' noto, riconosce la capacita' giuridica solo
al momento della nascita e subordina ad essa l'effettivo sorgere  dei
diritti ivi menzionati con riferimento agli artt. 462, 687 e 715 c.c.
(per donazione e testamento). 
    D'altra parte, dalla lettura della legge n.  40/2004,  si  evince
che essa ha voluto tutelare il concepito nel  senso  di  metterlo  al
riparo da  trattamenti  «disumani»  cui  comportamenti  spregiudicati
avrebbero  potuto  sottoporlo,   quali   la   crioconservazione,   la
sperimentazione, la selezione genetica. 
    Per altro  verso,  nonostante  il  capo  III  sia  esplicitamente
rubricato come «disposizioni concernenti  la  tutela  del  nascituro»
deve rilevarsi che le disposizioni in esso contenute  non  riguardano
la tutela diretta del concepito bensi' lo stato giuridico del nato in
quanto in esso si prevede che «i  nati  a  seguito  dell'applicazione
delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo  stato
di figli legittimi o  di  figli  riconosciuti  della  coppia  che  ha
espresso la volonta' di ricorrere alle tecniche medesime...» (art. 8)
ed ancora si prevede il divieto del disconoscimento della paternita',
si esclude il diritto all'anonimato della madre (ancora  art.  8)  e,
qualora si sia fatto comunque  ricorso  a  tecniche  di  procreazione
medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di
cui all'articolo 4, comma 3,  il  coniuge  o  il  convivente  il  cui
consenso e'  ricavabile  da  atti  concludenti  non  puo'  esercitare
l'azione  di  disconoscimento  della  paternita'  nei  casi  previsti
dall'articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2),  del  codice  civile,
ne' l'impugnazione di cui all'articolo 263 dello stesso codice  e  la
madre non puo' dichiarare la volonta' di non  essere  nominata  (art.
9). 
    Ed ancora, sempre «in caso di applicazione di  tecniche  di  tipo
eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4,  comma  3,
il donatore di  gameti  non  acquisisce  alcuna  relazione  giuridica
parentale con il nato e non puo' far valere nei suoi confronti  alcun
diritto ne' essere titolare di obblighi» (art. 9, 3° comma). 
    Tutte disposizioni, queste, che,  come  e'  evidente,  tendono  a
tutelare comunque  e  nel  miglior  modo  possibile  l'interesse  del
nascituro e sono idonee a realizzare una «stabilita'  parentale»  che
non sembra possa ritenersi deteriore rispetto  a  quella  del  figlio
adottivo e, per certi versi, anche migliore di quella di cui gode  il
figlio nato da ogni unione «naturale», soggetto,  com'e'  noto,  alle
azioni di disconoscimento di stato o  al  mancato  riconoscimento  da
parte del padre o della madre che ha anche il diritto di  non  essere
nominata al momento del parto, tutele a fronte  delle  quali,  appare
francamente irragionevole il manifestato timore  di  rendere  incerta
«l'identita' del figlio». 
    Inoltre, cio' che piu' non convince  e'  la  conseguenza  cui  si
giungerebbe in nome dell'esigenza di rispettare il preteso  «diritto»
del nascituro alla consapevolezza della propria provenienza  genetica
anche perche', come poco sopra ricordato, provvidamente il  3°  comma
dell'art. 9 tende (in caso di fecondazione  eterologa  effettuata  in
violazione dell'art. 4), come nel caso dell'adozione, a recidere ogni
relazione giuridica parentale del donatore di gameti con  il  nato  e
non puo' far valere nei  suoi  confronti  alcun  diritto  ne'  essere
titolare di obblighi». 
    Ed, invero, paradossalmente,  per  essere  certi  che  un  futuro
soggetto non abbia a patire tale ipotetica  e  soggettiva  sofferenza
(per  l'ignoranza  della  propria   provenienza   genetica,   comune,
peraltro, ad una non trascurabile porzione del genere umano)  gli  si
impedirebbe, in radice, il ben  piu'  rilevante  (almeno  nel  comune
sentire) diritto di venire  al  mondo,  rimedio  che  ragionevolmente
appare ben peggiore del male (eventuale) che gli si vorrebbe evitare. 
    Il diritto alla vita sarebbe, dunque,  pregiudicato  dal  diritto
alla ipotetica serenita' del nascituro, non certa  ne'  oggettiva  ma
eventuale e dipendente dalla soggettiva sensibilita' individuale. 
    Va, infine, rilevato che l'argomento che intende giustificare,  a
posteriori, il divieto della fecondazione eterologa  con  l'ipotetica
sofferenza  del  nato  per  l'ignoranza  della  propria   provenienza
genetica  appare  irragionevole  ed  incoerente  con  principi  ormai
consolidati nel nostro ordinamento giuridico cosi' come desunti dalla
Suprema Corte di Cassazione da norme e principi  costituzionali  come
quello che, ad esempio, nega al nascituro il diritto  a  non  nascere
ovvero a non nascere se non sano (cfr. Cass. n. 14488/2004 e Cass. n.
16123/2006),  laddove  appare  evidente  che  l'ipotetica  sofferenza
psicologica (e, dunque, superabile) del nato  per  l'ignoranza  della
propria provenienza genetica non puo' che reputarsi  un  trascurabile
minus rispetto alle tutt'altro che  rare,  spesso  gravissime  e  non
emendabili sofferenze perduranti  per  l'intera  esistenza  derivanti
dalle tante malattie ereditarie e malformazioni congenite o acquisite
in utero di cui sono purtroppo popolate le statistiche neonatali. 
    Inoltre, sotto il diverso profilo dell'esigenza  di  tutelare  il
nascituro nel senso di assicurargli con  certezza  stabili  relazioni
parentali, v'e' da dire che, gli studi effettuati in  materia  (cfr.,
ad  esempio,  quelli  messi  a  disposizione  dai  reclamanti)  hanno
accertato che solo una bassa percentuale di casi i genitori biologici
hanno svelato al figlio la sua  provenienza  genetica  e,  in  questi
casi, lo sviluppo psicosociale del figlio non si discosta  da  quello
dei figli nati senza l'ausilio a metodi di fecondazione eterologa. 
    Peraltro, anche in questo caso, la nascita sarebbe  preclusa  dal
possibile, ma non certo, pregiudizio che il  figlio  potrebbe  subire
dalla dissociazione tra maternita' biologica e maternita' genetica. 
    Di contro, invece, si  stagliano  i  diritti,  costituzionalmente
protetti,  di  soggetti  esistenti  che  sicuramente   subiranno   un
pregiudizio  in  caso  si  perdurante   divieto   alla   fecondazione
eterologa. 
    Del resto, il  nostro  ordinamento  prevede  la  possibilita'  di
relazioni parentali atipiche dal  momento  che  riconosce  l'istituto
dell'adozione. 
    Questo Collegio e' consapevole che i presupposti e  le  finalita'
di  tale  istituto  sono  diversi   da   quelli   posti   alla   base
dell'ammissibilita' della fecondazione eterologa, ma non puo' negarsi
che anche nel caso dell'adozione puo', in concreto, venirsi a creare,
nell'adottato, una situazione di disagio psicologico  -  forse  anche
maggiore  -  per  la  non  coincidenza   tra   maternita'   biologica
(ovviamente comprensiva di quella genetica) e  maternita'  affettiva,
disagio forse anche maggiore rispetto alla qui  temuta  dissociazione
tra maternita' biologica (e affettiva) e maternita' genetica laddove,
in questo caso, alla maternita' meramente affettiva si assomma  anche
il profondo legame della maternita' biologica dato da quella profonda
compenetrazione di  corpo,  di  sangue  e  di  nutrimento  che  lega,
comunque, l'embrione prima ed il feto poi alla donna che lo tiene  in
grembo e dalle cui viscere, alfine, il neonato verra' alla luce. 
    E, certamente, nessuno ha mai sostenuto  che  la  sofferenza  che
l'adottato possa, in futuro, patire per  la  mancata  conoscenza  del
genitore naturale possa costituire un ostacolo all'adozione. 
    Del pari non sembra  ragionevolmente  potersi  sostenere  che  la
sofferenza che il nato da fecondazione eterologa  possa,  in  futuro,
patire per la eventuale conoscenza della mancata coincidenza tra  (la
sua) madre biologica e (la sua) madre genetica - in  fondo  un  minus
rispetto alla totale estraneita' della madre adottiva - possa trovare
brutale e paradossale rimedio nella negazione della vita  stessa  del
nascituro. 
    Da  quanto  premesso,  si  deve  trarre  la   conseguenza   della
perdurante necessita', anche alla luce della decisione  della  Grande
Camera, che la  Corte  Costituzionale  si  pronunci  in  merito  alla
violazione ad opera della legge n. 40/2004 degli artt. 2, 3, 31, e 32
Cost. come gia' disposto dal giudice del  Tribunale  di  Catania  con
ordinanza del 21 ottobre 2010.